MOTIVI DI-VINI

MOTIVI DI-VINI
Vino e canzoni: è un’accoppiata che oggi sembra fuori moda, un po’ perché i giovani preferiscono altre bevande, ed un po’ perché l’elevazione del vino a “status symbol” del saper vivere ha posto la nostra gloriosa bevanda nazionale sul piedistallo delle rubriche culturali di stampa e televisione, mentre un tempo il bicchiere di vino era sinonimo di trasgressione e rottura delle regole. Dopo l’avvento nel mondo della musica del celebre trittico “ sesso, droga e rock & roll”, il vino ed i paradisi dei cosiddetti “fumi dell’alcol”, entrano in un limbo dal gusto alquanto demodé che oggi ci fa ricordare i “days of wine and roses” decisamente lontanissimi, molto di più di quanto effettivamente lo siano veramente. Proviamo a vedere, tra una produzione e l’altra veramente numerosa, la realtà più da vicino.

Quali e quanti sono i musicisti che negli ultimi cinquantanni hanno cercato, e forse trovato, l’ispirazione, nel vino?
I canti popolari, sono stati sicuramente tra i primi ad evidenziare uno stretto rapporto tra gli avventori di certe tipologie di locali in cui il vino, più o meno gradevole e sempre, più o meno, naturale, scorreva a fiumi con gli immancabili atroci mal di testa a seguito delle abbondanti sbornie: l’importante era bere, poi che cosa fosse, non aveva assolutamente importanza!!!

Una rielaborazione moderna di un noto canto veneto, riportato in auge da Renzo Arbore ed al posto da lui trovatogli nell’indimenticabile passerella radiofonica di “Alto gradimento”, è stata sicuramente “Quant’è bella l’uva focarina/ Quant’è bello andare a vendemmiar … “; senza omettere l’indicabile inno al “Vino de li castelli romani”, stornello-collante sociale per tavolate di una volta, che oggi ha quasi raggiunto un sapore sofisticato.
Il livornese Pietro Ciampi, 1940-1980, in una piccola ode in musica a Bacco ed al “suo” nettare, dal titolo, per l’appunto “Il vino”, scriveva:
 
           “Ma come è bello il vino
               rosso rosso rosso
                 bianco è il mattino
             sono dentro a un fosso”.
 

Sono le strofe di chi diceva “pane al pane e vino al vino” al punto da essere cacciato, senza mezze misure, da tutti i programmi RAI dell’epoca, in quanto non conforme e ne tanto meno, in “linea” col pensiero troppo conservatore di allora.
 
E’ negli anni ’60 che un certo ritorno alla terra ed alla natura, sembrava si tramutasse in un vero e proprio filone, ma il rischio corso si arrese davanti alla mancanza di canzoni dal forte contenuto che potremmo, forse, ricordare solo l’incerta cantante Louiselle con “La vigna”, quasi contemporanea alla più celebre “Andiamo a mietere il grano” della d’oltralpe Dalidà, o l’anonima Marie Lafauret, con “La vendemmia dell’amore”: due casualità nell’immenso e troppo vasto universo delle canzonette.
Attualmente, le maggiori case vinicole italiane, sul modello delle winery californiane, pensano a cd e compilation, gadget propiziatori per i propri acquirenti, dove il frutto di Bacco sia comune denominatore con importanti marchi nazionali a cui si sono affidati ai migliori autori di musica per la pubblicità per jingles dal sicuro richiamo.
Col consueto senno di poi, i “famosi” esperti di marketing e strategie persero un’ottima occasione, verso la metà degli indimenticabili anni ’60 e ‘70 quando, il sempre caro ed indimenticabile Giorgio Gaber, in “Trani a go-go” , fece respirare ad un vasto pubblico gli umori ed i profondi caratteri di una vecchia mescita.
 

“Seconda traversa a sinistra nel viale
ci sta quel locale abbastanza per male
che chiamano Trani a go-go.
Si passa la sera
scolando barbera
scolando barbera!”
 


Sempre il nostro Gaber, fece ancora meglio con “Barbera e Champagne”, evidentemente l’autore aveva una sviscerata predilezione per il vino rosso, niente meno che una pennellata acido-amara di una “Milano da bere” radical-chic ancora da venire, canzone che riascoltata oggi, non stempera i propri strali. Attualmente, l’unico a farsi ancora accompagnare sul palcoscenico da un bel bottiglione di lambrusco, “pistone” come personalmente lo chiama, anche se preferisce i vini bianchi, resta Francesco Guccini, che già nel 1970 incise nel personale secondo album “Due anni dopo”, una pregnante ballata dal titolo “L’ubriaco”. Ma lo stesso cantautore di casa felsinea confessa che le “ … osteria di fuori porta non hanno più la funzione aggregativa di una volta ed il vino rappresenta per gli italiani sempre maggiormente una ricerca, il pretesto per un viaggio, il sapore di una canzone, ma purtroppo ha perso del tutto quel valore tipico della nostra storia, dei nostri campi e della nostra gente, il nostro retaggio quotidiano, o almeno, così ci fanno credere i media con la scusa delle tecnologie e delle modernità”.

Pura ed intrinseca saggezza dettata, oltre che dal riconoscere lo sviluppo, sempre troppo rapido e perché no, anche un po’ eccessivo, appunto della tecnologia e di tutto ciò che ne consegue, del fatto che certi valori umanistici e lungimiranti siano del tutto, o quasi, dimenticati: un vero peccato per le future generazioni, in quanto non potranno mai “gustare” quei sapori e sensazioni impalpabili che noi, ormai “matusa”, abbiamo avuto la fortuna ed il piacere di goderne …
 
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